Nell’estrema punta settentrionale della Sicilia, là dove le acque del Mar Tirreno incontrano quelle dello Ionio, sorge l’antica Lanterna cui si affida chi attraversa le acque malsicure dello Stretto di Messina. La nostra storia si svolge ai piedi di quel Faro, nel mare e tra le povere case dei pescatori del luogo.
Ah, quant’è bedda Nunziatina! Nessuna fìmmina del Faro è bella come lei. Don Giovannino la voleva, ma le pettegole dicevano che era mavàra e non se n’era fatto niente. Pure Ntoni, Bastianeddu e Ninài volevano Nunziatina. Lei li guardava dritto negli occhi e diceva «Hai la roba? No? Che ci faccio con un pezzente come te ? Iitinni! [1]».
“Ma che mavara e mavara!” pensava Ninài, “Nunziatina cogghi u malocchiu [2] come tutte le altre in paese, lei è fìmmina timorata di Dio, la domenica va a messa e canta nel coro. Ah, l’aveste sentita! La voce di un angelo del paradiso!”.
Ostinato come un mulo, Ninài non si era rassegnato al rifiuto di Nunziatina. Con le sue mani costruì un luntru, la barca con la torretta per per avvistare i pesci spada e la passerella a prua per fiocinarli. Mastru Masi gli forgiò u ferru, la fiocina. Il tempo della caccia inizia d’aprile e dura fino a settembre. Cinque vogatori, due a poppa e tre a prora, manovrano i lunghi remi. Arrampicato in cima alla torretta un picciriddu fa’ da vedetta e Bastianeddu tiene il timone. Quando, tra il luccichio del sole e delle acque, distingue il dorso argentato del pesce, u picciriddu fa’ un grido e indica la posizione. Guidati da Ninài e Bastianeddu, i pescatori manovrano veloci e in men che non si dica sono di sopra al pesce. Ninài si sporge sulla passerella e lanza u ferru. Il pesce tira come un dannato, la sagola corre, brucia le mani. La barca rischia di affondare se il pesce si inabissa, o di sfasciarsi se è colpita dalla lunga spada. Ma i pescatori non mollano. Alla fine il pesce si sfianca, lo uccidono a colpi di remo, lo issano sulla barca e gridano “San Marcu è binidittu”. Poi lo segnano, tracciando con le unghie quattro cruci sulle branchie, perché nessuno spirito maligno del mare possa entrare nelle case.
Il pescato va spartito tra la barca, l’equipaggio e u mastru ferraru, ma il pescespada si vende bene. Nella cattiva stagione Ninài smonta torretta e passerella e porta a Bagnara il sale di contrabbando. U luntru è leggero e veloce.
Due anni di lavoro duro, tanto ci volle a Ninài per comprare gli occhi neri di Nunziatina. Quando escono dalla chiesa, Nunziatina con la mano si ripara i begli occhi abbagliati dalla luce del sole. Ninài è abbagliato dalla luce della sua bella, non vede altro che lei. La porta a casa, fanno l’amore fino a mattina. Sette mesi dopo nasce Cola. Ninài è l’uomo più felice del mondo.
«Sulu setti misi, non parirìa», «Tuttu so’ matri. Nenti ni pigghiau du patri», dicono le pettegole in paese.
Il piccolo Cola ha gli occhi della madre, neri come tizzoni. I piedi sono strani, con le dita unite da membrane, come quelli delle anatre.
«Comu me nonnu», dice Nunziatina. «Non ti preoccupare, Ninài. Terrà sempre le calze ai piedi. Accussì i cristiani non mummurìanu [3]».
Ninài è sempre felice, suo figlio è il bimbo più bello di Faro e cresce sano. Tre mesi dopo, Nunziatina dice: «Portiamo a mare u picciriddu».
Ninài protesta: «Ma ancora non cammina…»
«Il mare gli piacerà, come a suo padre».
In acqua il bambino mostra tutta la sua gioia, ride, strilla, spruzza… Cola impara a nuotare prima ancora che a camminare.
«Pari un pisci», dice orgoglioso Ninài.
«Vedrai», fa’ Nunziatina, «sarà un lanzatùri bravo come suo padre».
Passa il tempo e Cola ha dodici anni. In barca con Ninài, sta sulla torretta, nessuno come lui avvista tanti pesci spada. Ninài è felice e compra a Nunziatina quell’anello d’oro che lei desidera tanto. Quando non è sul luntru, Cola gioca con gli altri picciotti del Faro: Turiddu, Pascalinu e Ntonieddu. Nelle gare di nuoto è imbattibile, nelle corse a terra è impacciato da quegli strani piedi che tiene sempre coperti, come vuole sua madre. Sott’acqua Cola è insuperabile: prende il fiato e scende giù verso il fondo. Pesca a mani nude polpi e ostriche, tiene con sé un coltello legato a un ramo di pino e con quello infilza ricciòle e cernie. Cola non soltanto è bravo: è pure buono e generoso, tutti gli sono amici.
È inverno, il maestrale soffia freddo e impetuoso. Ninài è partito per portare il sale a Bagnara. Sa che i gendarmi non potranno mai raggiungere il suo luntru. Con quel vento, sicuramente finirebbero contro gli scogli. Cola è al Faro, gioca con gli altri picciotti. Nunziatina, sola in casa, ricama. All’ora di cena, quando torna a casa, Cola sente odore di mare, vede piccole pozze di acqua salmastra.
«Mammà, di unni vinni tutta st’acqua?», domanda. Mentre pronuncia queste parole intravede un uomo alto e robusto, con le dita dei piedi palmate e strani segni sul collo.
«Cola, chistu è to patri!».
Cola, sorpreso, fugge, si tuffa nel mare in tempesta.
«Cola!, Cola!», chiama Nunziatina. «Cola!, Cola!».
Cola continua a nuotare, sempre più al largo.
«Cola!, Chi mi hai malanova! Se non veni, ha essiri pisci, comu to patri!».
Solo dopo molti giorni Cola torna alla Lanterna, nello specchio d’acqua sotto il Faro per incontrare i picciotti. Turiddu, Pascalinu e Ntonieddu gli dicono: «Cola! Un pisci diventasti, ti crisceru li branchi!».
Cola non vuole più vedere Ninài né Nunziatina. Spesso però torna alla Lanterna, per i suoi amici. “Cola Pisci” lo chiamavano al Faro, sempre sottovoce, sempre lontano dalla chiesa e dai parrìni, quasi si vergognassero di conoscere quel ragazzo che ha branchie non segnate.
Quando Pascalinu eredita la barchetta di suo padre, Cola lo segue nuotando veloce come un siluro. Con le mani e con il coltello cattura pesci e li dona all’amico: «Mi raccomando, porticcilli puru a Ntonieddu e a Turiddu!».
Un giorno, la barchetta di Pascalinu inizia a roteare in uno di quei mulinelli che spesso si formano presso al Faro, anche quando è sereno. Gli antichi dicevano che fossero Scilla e Cariddi, i due mostri immani che sputavano acqua dalle fauci spalancate. Pascalinu, incapace di governare, chiama: «Cola! Cola Pisci! Aiuto!». Cola arriva subito, afferra la chiglia con le mani e trae l’amico e la sua barca fuori da quella danza mortale.
Le voci corrono. Ormai sulle due rive dello Stretto non si parla d’altro che di quel ragazzo, mezzo uomo e mezzo pesce, che nuota più veloce dei pesci spada e si immerge più profondamente dei pesci San Pietro.
Ai tempi della nostra storia, ogni primavera il Re di Sicilia si reca in nave da Palermo a Messina con tutta la sua Corte. Passa dal Faro e viene a sapere di Cola Pesce.
Lo fa chiamare e salire sulla nave. Salpano e raggiungono il mare aperto. Il Re prende un anello di grande valore, tutto d’oro, tempestato di rubini e diamanti, e lo getta in acqua:
«Prendilo e sarà tuo».
Cola si tuffa.
Troppo tempo è passato. Nelle barchette che fanno codazzo alla nave del Re, i pescatori sono sgomenti. Troppo fondo perché un uomo possa sperare di tornare in superficie. I cortigiani non sono sorpresi e sogghignano, avvezzi come sono alle crudeli bizzarrie del monarca.
Quando ormai nessuno se lo aspetta, Cola riemerge con l’anello in mano.
«Cos’hai visto là sotto?».
«Fuoco e acqua, Maestà. Non si vedeva bene, c’era troppo fumo».
«Voglio sapere se ci sono pericoli per il mio regno. Torna più a fondo e riferisci. Se avrai successo ti nominerò mio Grande Ammiraglio».
Cola si immerge di nuovo. Questa volta passa molto tempo e persino i suoi amici che sanno delle branchie si disperano. Quando il Re aveva già dato ordine di tornare a riva, la vedetta grida:
«Cola Pisci!»
E il Re: «Cosa c’è là sotto. Dimmi tutto, Cola».
«Il fuoco dell’Etna fa bollire l’acqua, Sire. La Sicilia poggia su tre colonne, Capo Passero, Capo Boeo e Capo Peloro. Quest’ultima è stata erosa dai vapori bollenti. Sono sceso fino al fondo dello Stretto e ho visto che è incrinata».
«Adesso sei il mio Grande Ammiraglio, Cola Pesce. È tuo dovere difendere il Regno da ogni pericolo che viene dal mare. Torna in fondo e puntella quella colonna con il ferro, dovesse anche costarti la vita. Se riuscirai sarai il mio Vicerè».
Cola si tuffa di nuovo, con una gran trave di ferro in mano. L’attesero due giorni interi, invano. Il terzo giorno la nave del Re riparte, diretta a Messina.
Alcuni dicono che, come un novello Atlante, Cola rimase giù sul fondo a reggere la colonna incrinata. Altri sostengono che in fondo al mare Cola abbia incontrato suo padre, Tritone, e che questi gli avrebbe detto:
«Che fai? La Sicilia non è minacciata dalle fiamme dell’Etna. Il pericolo vero sono i despoti rapaci, quelli come il tuo Re e come quelli che verranno dopo di lui, pretendendo di ricoprire tutto di ferro e di cemento. Rimani con me, piuttosto, e con le mie sirene».
[1] Iitinni: Vattene
[2] cogghi u malocchiu: esegue un rituale di magia bianca popolare per verificare se c’è stato malocchio e, in tal caso, toglierlo.
[3] mummurìanu: mormorano, spettegolano.