sabato 1 ottobre 2016

Le mie ragioni per il NO

La "riforma" di Renzi è soltanto un trucco per rendere impraticabile la revisione degli accordi di Maastricht, qualora alle prossime elezioni dovesse vincere il M5S. Una volta che ho messo avanti la mia tesi che per alcuni suonerà sicuramente provocatoria, ve ne fornisco una dimostrazione, precisa e inoppugnabile.
Molto di quanto Renzi faccia o sfaccia è legato al perseguimento della sua politica, cioè l'occupazione del potere. Così l'Italicum fu pensato per garantire al PD la maggioranza assoluta ed è stato rimesso in discussione quando si è visto che rischiava di favorire il M5S. 
Lo scopo vero della "riforma" costituzionale di Renzi è, secondo me, quello di avere un Senato con una maggioranza determinata dalla contiguità al potere: ben il 5% dei senatori nominati dal presidente della Repubblica ed il resto dai consigli regionali e dai sindaci. Il senato è quindi concepito come un elemento di conservazione dell'establishment, cosa non strana e che per altro avviene in USA e Germania, dove la camera alta serve a garantire la forma federale dell'unione. Il fatto che il Senato sia investito del diritto di veto (semplifico) su certe materie piuttosto che su certe altre, indica quindi cosa si intende rendere molto difficilmente riformabile. L'art. 70 stabilisce su quali materie Camera e Senato possano giocare a rinviarsi le leggi esattamente come avviene adesso, non è quindi casuale che la sua riscrittura abbia richiesto fiumi di parole. Tra le materie di pertinenza anche del senato vanno quindi rintracciate quelle che si intende blindare. Tra queste materie, particolarmente rilevanti sono "le forme e i termini della partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea" . La mia lettura differisce qui parecchio da altre che vengono proposte, per esempio da quella del professor Zagrebelsky, ma non mi pare che per questo sia meno legittima. Il fatto che oggi il M5S chieda la revisione dei trattati e che i sondaggi lo diano per vincente qualora si votasse con l'Italicum suggerisce che la mia lettura sia altamente realistica.

domenica 14 agosto 2016

Un Parlamento ad una piazza e mezzo


Se il problema fosse la perdita di tempo che deriva dall'avere due Camere  legislative con uguali poteri, la soluzione più ovvia all'attuale bicameralismo sarebbe il monocameralismo, un'opzione sulla quale a lungo discusse la Costituente. La "riforma" voluta da Renzi, invece, non è monocameralismo, non è bicameralismo, ma è... una camera e mezzo. E, quando si tratta di enunciare principi, come in una Costituzione si dovrebbe fare, raramente la virtù sta nel mezzo. In particolare, per differenziare i poteri delle due Camere, è stato necessario riscrivere l'articolo 70, che consisteva di nove semplici parole, con un testo lunghissimo, irto di riferimenti ad articoli e commi e, quindi, incomprensibile ai più. Non si tratta di un problema meramente estetico, sebbene l'eccessiva complessità di certe norme renda l'ignoranza della legge "scusabile" perché "inevitabile" (si veda la sentenza 24 marzo 1988, n. 364 della Corte Costituzionale), ma si tratta anche di un problema pratico: il contenzioso che nascerebbe da una simile norma potrebbe finire per rallentare piuttosto che accelerare il processo di approvazione delle leggi. Dubbi ancora maggiori sul monocameralismo e mezzo della riforma Renzi nascono ove si consideri il merito della divisione dei poteri tra le due Camere. In particolare, il Senato manterrebbe tutti i suoi poteri riguardo ai trattati dell'Unione Europea. Visto che sono previsti metodi completamente diversi per la formazione delle Camere: la Camera dei deputati eletta ed il Senato formato con elezioni di secondo grado e integrato con membri di nomina presidenziale, è verosimile che, su una questione importante come quella dei trattati europei, il sistema mostri tutta la sua schizofrenia precludendo ai rappresentanti del popolo ogni rideterminazione dell'esistente. Una riforma quindi fortemente antidemocratica e tesa a blindare lo status quo nei rapporti tra Italia e Unione Europea.
Una ulteriore ragione per non condividere la riforma è la considerazione obiettiva che il processo di formazione delle leggi sia oggi negativamente influenzato dal Governo, che sovraccarica le Camere con la decretazione d'urgenza, di cui si è abusato anche a giudizio della Corte Costituzionale. Anche qui la riforma Renzi non coglie l'obiettivo dichiarato.
Sopra ho esposto le principali ragioni per cui voterò no alla riforma Renzi. Avrei ancora da aggiungere un'obiezione minore. Se da una parte non ho dubbi sulla legittimità del processo di revisione costituzionale, da cittadino non posso non rilevare che questo processo è stato gestito da un Parlamento eletto sulla base di una legge dichiarata incostituzionale, con l'aggravante che il partito che più ha goduto dell'illegittimo premio di maggioranza non ha voluto ricercare ampie convergenze in Parlamento, ma ha preferito far da solo, addirittura ricorrendo ad alleanze estemporanee con frange di forze che pure, durante la campagna elettorale, erano state definite antagoniste. Seri dubbi sulla riforma vengono ancora dal fatto che alcuni dei proponenti in passato ripetutamente asserirono che la presenza di 5 senatori a vita nel Senato avesse condizionato negativamente la formazione e la caduta di alcuni governi: se prima si trattava di 5 senatori su 320, poco più dell'1% del Senato, dopo la riforma Renzi addirittura il 5% del Senato sarebbe di nomina presidenziale. E infine, permettetemi, odio la demagogia, i presunti risparmi che deriverebbero dalla riforma e che Renzi dichiara di voler trasferire ai "più poveri" sono risibili, visto che il Senato manterrebbe tutti i suoi uffici: un risparmio pari o addirittura superiore si sarebbe potuto ottenere riducendo il numero dei membri delle due camere o ritoccandone le indennità.

lunedì 18 luglio 2016

Il saggio Averroè e il Califfo di Cordova

Statua di Averroè a Cordoba

[...] e vidi Orfeo,
Tulio e Lino e Seneca morale;
Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galieno,
Averoìs, che ’l gran comento feo
[Dante, Inferno, Canto IV]

Per molto tempo i musulmani hanno sostenuto (e sostengono ancora, se non sono analfabeti sulla loro religione) che ogni fedele abbia il diritto di interpretare autonomamente le Scritture, mentre i cattolici tradizionalmente hanno ritenuto che ogni interpretazione spettasse al magistero della chiesa. Soltanto dopo la Riforma, Galileo, Darwin e la Rivoluzione francese, presso i teologi cattolici si è fatta strada l'idea che le Scritture potessero essere interpretate con qualche libertà.


Averroé (XII secolo), grande sufi e giudice supremo di Cordova, rifiutò di comminare ad un bandito la pena di morte, e, sebbene le prove contro di esso fossero soverchianti, lo condannò all'esilio (motivando che la vita è un dono di dio e quindi nessuno, neppure il califfo, ha il diritto di prenderla ad un altro uomo). Averroè rispose negativamente ai due appelli presentati dal procuratore del califfo e, alla fine del processo, il bandito fu accompagnato in esilio dalle guardie dello stesso califfo, Averroè fu licenziato, processato, e, a sua volta, esiliato. L'Islam è stato anche questo, non soltanto libertà di interpretazione delle scritture, ma addirittura separazione dei poteri dello stato e persino dei ruoli di procuratore e giudice!

La storia di Averroè in Cordoba è narrata anche ne "Il destino", splendido film di Youssef Chahine (1997) premiato ai festival di Cannes, di Amiens e del Cairo.

sabato 16 luglio 2016

Ombre sulla Turchia

Per quasi cinquecento anni, queste regole e teorie di un vecchio arabo e le interpretazioni di generazioni di religiosi pigri e buoni a nulla hanno deciso il diritto civile e penale della Turchia. Loro hanno deciso quale forma dovesse avere la Costituzione, i dettagli della vita di ciascun turco, cosa dovesse mangiare, l’ora della sveglia e del riposo, la forma dei suoi vestiti, la routine della moglie che ha partorito i suoi figli, cosa ha imparato a scuola, i suoi costumi, i suoi pensieri e anche le sue abitudini più intime. L’Islam, questa teologia di un arabo immorale, è una cosa morta. Forse poteva andare bene alle tribù del deserto, ma non è adatto a uno Stato moderno e progressista. La rivelazione di Dio! Non c’è alcun Dio! Ci sono solo le catene con cui preti e cattivi governanti inchiodano al suolo le persone. Un governante che abbisogna della religione è un debole. E nessun debole dovrebbe mai governare.
(Kemal Ataturk)


Il tentativo di colpo di stato militare è fallito. Il bilancio di quanto avvenuto la scorsa notte comprende 100 morti, 1000 feriti, 1500 arresti e un solo vincitore, Recep Tayyip Erdoğan, da 13 anni leader della Turchia.

Chi scrive non ama né i colpi di stato né i militari, e tuttavia la Turchia ha un suo specifico: chi oggi parla di "trionfo della democrazia" si sbaglia di grosso. Per comprenderlo, occorre fare un passo indietro e guardare alle origini della moderna Repubblica Turca.


Mustafa Kemal Pasha (1881-1938), in Grecia, 
nel 1918
Il Sultano Maometto VI (1861-1926)



La Turchia moderna nacque dalle ceneri dell'Impero Ottomano, subito dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale. L'artefice della Repubblica Turca fu Mustafa Kemal, massone, generale (in turco Pasha), eroe della prima guerra mondiale,  primo ministro e presidente della "Grande Assemblea Nazionale" turca dal 1921. Kemal si convinse che la Turchia dovesse liquidare il vecchio stato islamico, depose il Sultano ottomano Maometto VI e proclamò la Repubblica Turca nel 1923.

Le riforme di Kemal furono epocali: la Turchia abbandonò la legge islamica, la Sharia, e, da monarchia assoluta divenne una Repubblica costituzionale e laica. Si adottarono i caratteri latini in sostituzione dell'alfabeto arabo, venne stabilita la parità dei sessi, abolita la poligamia, adottato il suffragio universale, depenalizzata l'omosessualità. Un gran numero di simboli islamici vennero smantellati: nei locali pubblici e nelle strade fu proibito l'uso dell'hijab, il tradizionale velo indossato dalle donne, vennero liberalizzate le bevande alcoliche, fu proibito l'uso del fez, il copricapo divenuto simbolo dell'impero ottomano. Kemal si spinse avanti fino a fare un museo nazionale della grande basilica di Santa Sofia a Costantinopoli, già cattedrale bizantina prima e successivamente divenuta la principale moschea del mondo musulmano, un po' l'equivalente di S. Pietro per l'Islam. Kemal spostò infine la capitale da Costantinopoli, la capitale degli imperi Romano e Ottomano, che fu ribattezzata con il nome turco, Istanbul, ad Ankara, città in posizione più centrale rispetto al territorio turco.

La basilica di Santa Sofia ad Istanbul.


Se Kemal fu certamente un grande riformatore, tuttavia la sua figura non fu priva di ombre. Egli fu un convinto nazionalista e volle un governo forte. La costituzione kemalista assegnò all'esercito l'ingombrante ruolo di "garante della rivoluzione". Sebbene Kemal sia stato duro con le minoranze etniche, greci, armeni e kurdi, tuttavia il genocidio degli armeni fu responsabilità del precedente regime e la repressione militare dei kurdi iniziò soltanto nel 1983, parecchi anni dopo la morte del leader turco. Kemal, infine, accettò compiaciuto l’onore che il parlamento turco volle accordargli attribuendogli il cognome Ataturk (padre dei turchi). Dopo la morte di Kemal (1938) un vero culto della personalità di Ataturk si diffuse in Turchia, alimentato dai militari. Ancora oggi, all’inizio delle lezioni, gli studenti turchi rivolgono parole di ringraziamento al “padre dei turchi” e le fotografie di Kemal sono onnipresenti nei luoghi pubblici.


Kemal Ataturk, nel 1937 a Istanbul.

Dopo la morte di Ataturk, in Turchia si sono avuti tre colpi di stato ad opera dell'esercito, tutti riusciti (1960, 1971, 1980). In tutti i casi i  militari intendevano riportare lo stato nel solco della dottrina kemalista, sconfiggendo tentativi di islamizzazione, contrastando la corruzione diffusa tra i membri del governo e le liberalizzazioni economiche ritenute eccessive. In tutti i casi i militari tennero per se il potere per brevi periodi e lo lasciarono spontaneamente. L'interminabile governo
di Recep Tayyip Erdoğan riassume in sé tutti i mali deprecati dai militari, liberalizzazioni, islamizzazione e corruzione, il dittatore democraticamente eletto ha pubblicamente e ripetutamente offeso i principi del kemalismo, senza trascurarne i simboli, sempre importanti presso le culture musulmane: il suo governo ha permesso ovunque l'uso del velo, e, appena pochi giorni fa, ha autorizzato funzioni religiose musulmane a Santa Sofia. Non sorprende quindi tanto il tentativo di colpo di stato di ieri quanto, piuttosto, il suo fallimento, segno inequivocabile della capacità di Erdogan di controllare saldamente tutte le leve del potere. Nel corso della notte si è svolta una vera e propria battaglia tra i militari insorti e la polizia fedele ad Erdogan. secondo le ultime notizie giunte da Ankara è in corso una massiccia epurazione tra i ranghi intermedi ed alti dell'esercito, epurazione che colpisce anche parecchi civili.

Suonano oggi ipocriti i proclami delle potenze occidentali sulla presunta restaurazione della democrazia in Turchia. Mai come in questi anni si sono ridotti gli spazi democratici del paese, la rivolta della birra del 2013 ha segnato l'inizio di una feroce repressione interna. Adesso Erdogan giunge a dichiarare l'intenzione di reintrodurre la pena di morte per i traditori

giovedì 28 gennaio 2016

Coprire le vergogne: una vecchia nuova moda, da Michelangelo a Renzi passando per il Concilio di Trento

Non è certamente nello stile e nella cultura degli sciiti la richiesta di coprire i nudi dei Musei Capitolini, come il leader iraniano Hassan Rouhani ha confermato nella conferenza stampa di oggi. La prima delle interpretazioni starnazzate dalla stampa italiana, che si trattasse cioè di un ossequio servile richiesto dall'entourage di  Rouhani, è destituita quindi da ogni fondamento. Gli iraniani sono, per chi lo avesse dimenticato, il popolo delle Mille e una notte, il librò che ispirò a Pasolini il Fiore delle Mille e una notte. Chi ha letto il libro o visto il film sa bene che la fobia per il nudo non trova spazio nella cultura iraniana. La cupidigia di servilismo, di cui Vittorio Emanuele Orlando accusò De Gasperi durante il dibattito parlamentare sulla ratifica del trattato di pace nel 1947, è un antico vizio italiano, ma in questo caso può essere una spiegazione accettabile soltanto se accompagnata da una adeguata dose di ignoranza.
Una spiegazione alternativa, e assai più leggera, per il gesto degli italiani tuttavia l'avrei. Potrebbe essere soltanto un fatto di moda, meglio, di un'antica moda tutta italiana che forse adesso sta tornando in auge. Come tutti sanno, fino a qualche anno fa, era assai diffusa in Italia l'usanza di ricoprire le vergogne nei dipinti con opportuni panneggi. Mi viene in mente un aneddoto che vide, come vittima illustrissima di quella moda, nientedimeno che Michelangelo Buonarroti, l'opera colpita fu quello che forse è considerato il più grande capolavoro del Rinascimento italiano, il Giudizio universale, l'immenso affresco che ricopre una parete della Cappella sistina.  L'opera, commissionata da Papa Clemente VII e confermata da Paolo III, fu realizzata tra il 1536 ed il 1541, e iniziò a suscitare polemiche prima ancora di essere ultimata. Come racconta Giorgio Vasari (1511-1574) nella sua Vita di Michelangelo:

Aveva già condotto Michelagnolo a fine più di tre quarti dell'opera, quando andando papa Paulo [Paolo III] a vederla; perché messer Biagio da Cesena, maestro delle cerimonie e persona scrupolosa, che era in cappella col papa, dimandato quel che gliene paressi, disse essere cosa disonestissima in un luogo tanto onorato avervi fatto tanti ignudi, che sì disonestamente mostrano le lor vergogne, e che non era opera da cappella di papa, ma da stufe e d'osterie; dispiacendo questo a Michelagnolo, e volendosi vendicare, subito che fu partito, lo ritrasse di naturale, senza averlo altrimenti innanzi, nello inferno nella figura di Minos, con una gran serpe avvolta alle gambe fra un monte di diavoli. Né bastò il raccomandarsi di messer Biagio al papa ed a Michelagnolo che lo levassi, che pure ve lo lassò per quella memoria, dove ancor si vede!




Oltre che l'antipatia di Biagio da Cesena, Michelangelo si guadagnò quella del ben più influente cardinale Gian Pietro Carafa, che iniziò a sostenere che i dipinti di Michelangelo fossero osceni e dovessero essere rimossi. Con l'apertura del Concilio di Trento (1545), la morte di Paolo III (1549) e l'ascesa al soglio pontificio del cardinal Carafa come papa Paolo IV (1555) il clima culturale e politico di Roma cambiò, così nel 1565 il papa ordinò interventi censori sull'opera di Michelangelo.

In figura, a sinistra un particolare del celebrato Giudizio universale di Michelangelo Buonarroti (1475-1564), così come oggi appare nella Cappella Sistina in Roma, dopo il restauro del 1994. Il particolare raffigura i santi Biagio e Caterina d'Alessandria con gli "strumenti" dei rispettivi martiri, i pettini e la ruota. A destra, una copia dello stesso particolare eseguita da Marcello Venusti nel 1549 e conservata nel museo di Capodimonte a Napoli. Le differenze tra i due dettagli risalgono all'intervento eseguito nel 1565, subito dopo la morte di Michelangelo, da Daniele da Volterra detto il Braghettone, che, su incarico del papa, ricoprì con drappeggi i genitali esposti nel capolavoro michelangiolesco. Un intervento censorio più profondo si rese necessario per la scena con i santi Biagio e Caterina, le cui posizioni suggerirebbero un coito. Per questa ragione, il Braghettone, non si limitò a coprire le pudenda dei due santi incriminati, ma fu costretto a ridipingere del tutto S. Biagio, mettendolo in posizione eretta e facendolo volgere a sinistra verso l'alto, mentre S. Caterina è posta alla sua destra in basso.

Se, come sospetto, la copertura dei Musei Capitolini non fosse altro che un revival di quella moda che volle censurare Michelangelo, visto che ci diamo da fare per coprire le nostre vergogne, sommessamente proporrei che Renzi indossasse d'ora in avanti il burqa. A scanzo di equivoci: il burqua è di moda presso alcune donne sunnite afgane e non è per nulla usato dalle donne sciite iraniane.

lunedì 25 gennaio 2016

Quante sterline vale l'equazione di Schroedinger ?

Credo fosse il 1993, io lavoravo come ricercatore presso l'Università di Bristol. A quel tempo il ministro per la scienza del governo conservatore di Major era Lord Waldergrave, un autentico aristocratico inglese con una laurea in fisica nel curriculum. Ricordo il seminario che egli tenne nell'aula magna di Bristol per illustrare la "nuova" politica scientifica del governo di cui faceva parte. Era la solita predica sulla "necessità" di insistere sulle ricerche applicate o che possano avere ricadute tecnologiche, piuttosto che sulla ricerca di base e su quella teorica, una tesi questa da cui energicamente dissento. Egli concluse il suo discorso con parole che ricordo benissimo: "alla fine dell'anno ognuno di voi dovrà chiedersi quante sterline ha fruttato la sua ricerca".
Alzai la mano e chiesi, nel mio inglese con forte accento siciliano: "Lord Waldergrave, secondo lei quante sterline vale l'equazione di Schroedinger?", prendendomi gli applausi di tutta la platea. Sebbene fosse un consumato politico, occorsero a Waldergave alcuni minuti per cercare di iniziare a balbettare una risposta.
Per chi non la conoscesse, l'equazione di Schroedinger (1926) è l'equazione fondamentale della meccanica quantistica, non potrei immaginare un risultato più "teorico" e più "di base". La famosa equazione non soltanto ha rivoluzionato il modo in cui i fisici percepiscono la realtà, ma senza di essa non potrebbe esistere l'elettronica digitale, i computer sarebbero grandi come palazzi e infinitamente più lenti, non ci sarebbe internet e la chimica brancolerebbe nel buio. Il "giro di affari" alimentato dall'equazione di Schroedinger è una frazione significativa del PIL mondialee
Erwin Schroedinger, premio Nobel per la fisica nel 1933.
William Waldegrave visiting University of Salford 1981 cropped.jpg
Baron William Waldergrave of North Hill.

mercoledì 20 gennaio 2016

Come valutare gli insegnanti?

Della scuola parlano tutti, spesso a casaccio. Alla scuola si chiedono le cose più diverse: essere un'area "sicura" dove parcheggiare i propri figli quando si è al lavoro o impegnati in altro, fornire diplomi, insegnare o non insegnare l'educazione sessuale o stradale, esporre o meno crocifissi. Nella furia di decidere cosa si vuole dalla scuola, spesso ci si dimentica che la scuola è nata con lo scopo di formare i cittadini di domani, fornendoli di quegli strumenti che consentiranno loro di esercitare i diritti e osservare i doveri che dalla cittadinanza derivano. Gli strumenti che la scuola deve fornire sono tanto strumenti culturali che permetteranno al cittadino di domani di leggere la realtà in cui vivranno, quanto le abilità che il cittadino dovrà possedere per svolgere un lavoro proficuo nella società di domani. Questa almeno è la mia opinione.

Ci sono corollari che seguono dalla mia definizione. La scuola deve meritare la massima considerazione sociale, proprio perché essa è un investimento necessario per la società di domani. Alla scuola devono essere forniti locali adeguati ed adeguatamente attrezzati, gli insegnanti devono essere adeguatamente motivati, selezionati e retribuiti. L'azione della scuola deve essere accuratamente monitorata e gli insegnati valutati, in modo da poter migliorare continuamente il servizio scolastico.

Sulla valutazione degli insegnanti molte cose si dicono e, in una società consumistica come la nostra, si fa avanti l'idea che gli insegnanti debbano essere valutati dagli utenti finali, un po' come i prodotti sui banchi di vendita di un supermercato dovrebbero essere valutati dai consumatori. Questa idea si nutre di due grossi equivoci. In primo luogo l'utente della scuola è la società, non tanto il singolo studente, è tutta la società quindi che deve valutare la scuola tenendo a mente le finalità per le quali essa è istituita. In secondo luogo la valutazione da parte degli studenti (e dei genitori) facilmente potrebbe essere falsata: essi potrebbero preferire gli insegnanti che mettono i voti più alti o che più sono permissivi. Questo ragionamento non esclude che il profitto degli studenti non costituisca un importante indicatore della qualità del servizio.

Come esempio di un sistema di valutazione, nella mia opinione efficace anche se certamente perfettibile, ricordo qui il metodo che si applicava nella Russia sovietica [1], metodo che non è immediatamente applicabile in Italia oggi per ragioni che diverranno chiare sotto. Nell'URSS esistevano definiti programmi statali per le scuole di ogni ordine e grado come pure per le università. La valutazione degli studenti avveniva esclusivamente attraverso prove scritte periodiche. Gli scritti si svolgevano senza la presenza dell'insegnante, la sorveglianza dei candidati era affidata ad altro personale. Al termine della prova, gli elaborati venivano raccolti ed inviati in plichi sigillati ad insegnanti della stessa materia che lavoravano a centinaia o migliaia di chilometri di distanza in classi di uguale livello, questi correggevano e valutavano. I voti ottenuti servivano non soltanto per valutare gli studenti ma anche, depurati per così dire dalle condizioni iniziali degli studenti, per valutare il lavoro svolto dall'insegnante di classe. Il sistema scolastico sovietico era estremamente selettivo. Per usare una metafora calcistica, c'erano scuole di serie A, di serie B e di serie C, ed erano previste "promozioni" e "retrocessioni", per gli studenti come per gli insegnanti. Le scuole di serie C erano le scuole che avviano ad un mestiere.

Una prevedibile obiezione al sistema scolastico sovietico è l'attribuire ad esso il fallimento dell'URSS. Personalmente credo che il collasso dell'URSS sia avvenuto nonostante un sistema scolastico eccezionale. Ho avuto modo, nel corso degli anni, di incontrare e collaborare con tanti scienziati formatisi nella Russia sovietica e mi sono fatto l'idea che, al netto del genio personale che poco ha a che vedere con la scuola, essi fossero i migliori del mondo. E' un fatto che gli scienziati ex-sovietici, prima e dopo il crollo dell'URSS, siano stati contesi dai migliori laboratori del mondo. Le scuole di fisica e di medicina dell'ex-URSS sono state in grado di selezionare e formare un paio di generazioni di eccellenti scienziati. I risultati dell'ex-URSS in fisica, medicina e negli scacchi (che costituivano una parte importante del curriculum scolastico sovietico) sono sbalorditivi.

Mi fermo qui. Tutti i commenti sull'argomento del post sono i benvenuti.

[1] Una discussione sul sistema educativo sovietico, da un punto di vista americano:
https://www.academia.edu/2259784/The_Soviet_Education_Model_Russia_s_Communist_Legacy_in_Schools_Past_and_Present